3 modi in cui ogni giorno le città danneggiano l’ambiente
La gente che s’incontra, se gli chiedi: – Per Pentesilea? – fanno un gesto intorno che non sai se voglia dire: “Qui”, oppure: “Piú in là”, o: “Tutt’in giro”, o ancora: “Dalla parte opposta”. – La città, – insisti a chiedere – Noi veniamo qui a lavorare tutte le mattine, – ti rispondono alcuni, e altri: – Noi torniamo qui a dormire. – Ma la città dove si vive? – chiedi. – Dev’essere, – dicono, – per lì, – e alcuni levano il braccio obliquamente verso una concrezione di poliedri opachi, all’orizzonte, mentre altri indicano alle tue spalle lo spettro d’altre cuspidi. – Allora l’ho oltrepassata senza accorgermene? – No, prova a andare ancora avanti. (Le città invisibili- Italo Calvino)
Inauguriamo il secondo articolo della rubrica “Ri-Evoluzione Urbana” con questo piccolo estratto da uno dei romanzi più importanti di Italo Calvino, “le città invisibili“. Pentesilea, la città immaginaria descritta nella sezione denominata “Le città continue”, potrebbe facilmente ricordarci una metropoli dei nostri tempi.
La città, divenuta habitat (anti)naturale dell’uomo moderno, è per lui inferno e paradiso allo stesso tempo. Seppur artificiali, i centri urbani sono anch’essi un ecosistema, nel quale il consumo e la degradazione del “capitale naturale” è senz’altro più elevato.
Ci piace pensare che, quando Calvino si è immaginato Pentesilea, avesse già in mente gli effetti negativi legati alla sempre più crescente espansione urbana. Lo scrittore, che in tempi non sospetti aveva già trattato il tema del consumo di suolo ne “La Speculazione Edilizia”, scritto negli anni ’50 ed edito nel 1963.
Ma tornando a noi, l’autore scrive di una città che, di fatto, non ha inizio né fine e la cui crescita disordinata – il nome di questo fenomeno è “urban sprawl” – provoca diversi effetti collaterali, in particolare ambientali e sociali.
In questo articolo focalizzeremo la nostra attenzione su tre modi in cui, giorno dopo giorno, le città moderne danneggiano l’ambiente.
1) Inquinamento dell’aria
Il primo problema che ci viene in mente, se pensiamo allo stato delle nostre città, è quello legato all’inquinamento atmosferico. Altro tema che non è sfuggito alla penna di Calvino, trattato nella novella “La Nuvola di Smog”. Sebbene la qualità dell’aria sia nettamente migliorata negli ultimi dieci anni, rispetto agli anni ’50 dello sviluppo sfrenato in cui scriveva Calvino, la situazione è tutt’altro che rosea.
Tra le cose che avremmo dovuto imparare in questi anni pandemici, una di queste è che l’inquinamento dell’aria non è un problema esclusivamente ambientale, ma soprattutto sanitario.
La salute delle persone ha moltissimo a che fare con l’ambiente che ci circonda: se pensiamo al Covid-19, c’è uno studio che dimostra come ci siano forti correlazioni tra l’esposizione cronica a diversi inquinanti atmosferici e la sintomatologia scatenata dal virus Sars-Cov-2.
Secondo le ultime valutazioni effettuate dall’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA), ogni anno in Italia ci sono circa 50 mila morti premature causate dall’esposizione al particolato fine.
In questo momento, il nostro Paese ha all’attivo ben tre procedure di infrazione dei limiti europei per tre inquinanti: il PM10 (nel 2020 la Corte europea di giustizia ha condannato lo Stato italiano per violazioni dei limiti di polveri sottili dal 2008 al 2018), il Pm2.5 e il biossido di azoto (NO₂).
È altresì importante ricordare, a tal proposito, che nel 2021 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rivisto al ribasso i limiti suggeriti di concentrazione dei principali inquinanti atmosferici. Non esiste infatti una soglia minima per vedere degli effetti negativi sulla salute: diminuire le concentrazioni è un beneficio a prescindere da quali siano i valori di partenza.
Ma come siamo messi, dunque, in Italia?
Per niente bene, purtroppo. A dircelo è l’ultimo report di Legambiente “Mal’aria di città. Quanto manca alle città italiane per diventare clean cities“.
Dal rapporto è emerso che, su 102 capoluoghi di provincia presi in esame, nessuno è riuscito a rispettare tutti e tre i valori limite suggeriti dall’OMS. ovvero una media annuale di 15 microgrammi per metro cubo (μg/mc) per il PM10, una media di 5 μg/mc per il PM2.5 e 10 μg/mc per l’N02.
In particolare, sono 17 le città che superano più del doppio i valori di polveri sottili suggeriti dall’OMS: sul podio Alessandria (33 µg/mc), Milano (32 µg/mc) e poi Brescia, Lodi, Mantova, Modena e Torino (che hanno registrato i 31 µg/mc).
Per quanto riguarda il Pm2.5 (la parte più fina delle polveri sottili e quella che desta maggiori preoccupazioni per la salute) le città coi risultati peggiori sono 11 – con Cremona e Venezia che hanno registrato le maggiori criticità (media annuale 24 µg/mc contro un valore OMS di 5 µg/mc) -, mentre Milano e Torino guidano la classifica dei 13 centri urbani più inquinati da biossido di azoto.
Cosa fare per migliorare?
Stando ai dati raccolti dal report che sono stati comparati e valutati rispettivamente ai valori suggeriti dall’OMS, emerge che nel nostro Paese si dovrebbero ridurre le concentrazioni di PM10 di circa il 33%. Per il Pm2.5 la percentuale sale addirittura al 61%, mentre per l’ NO₂ l’obiettivo deve essere del 52%.
Bisognerebbe, inoltre, uscire una volta per tutte dalla logica dell’emergenza e delle scuse che hanno caratterizzato gli ultimi decenni passando dalle parole ai fatti. Cosa non semplicissima, perché questi ultimi hanno a che fare con cambiamenti piuttosto consistenti delle nostre abitudini.
Considerando che, nell’ambiente urbano, i due settori che incidono di più sull’inquinamento atmosferico sono la mobilità e il riscaldamento domestico, bisognerebbe accelerare la transizione ecologica legata a questi ultimi.
Tra le possibili soluzioni, è interessante il concetto urbano reso popolare dalla sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, secondo il quale tutto ciò che serve a un cittadino dovrebbe stare a pochi minuti a piedi dalla sua abitazione. Per applicare questo concetto alla gran parte delle città italiane bisognerebbe ridisegnare lo spazio pubblico urbano.
Ambire a centri urbani meno inquinati significherebbe anche rinforzare la sharing mobility e la dotazione del trasporto pubblico elettrico. Ma queste proposte , da sole, non bastano, fino a quando non si fermerà la commercializzazione di automobili a combustione interna.
2) Produzione di rifiuti
Waste, ovvero rifiuti, è una parola interessante, che si può rintracciare nell’inglese antico e nel norvegese antico e si può far risalire al latino, con derivati quali vuoto, svanire e devastare. (Underworld- Don DeLillo)
Prima o poi, ogni oggetto diventerà rifiuto. E nella cultura consumistica all’interno della quale tutti noi siamo nati e cresciuti, che è partita dagli Stati Uniti e ha colonizzato il mondo intero, gli esseri umani provano un’attrazione fatale nei confronti degli oggetti materiali.
Lo sapeva bene Donald Richard DeLillo, conosciuto come “Don”, quando ha scritto “Underworld“, che è uno dei suoi romanzi di maggiore successo. Torniamo agli anni ’50 del boom economico, ma oltre oceano, in cui l’autore racconta un’America esaltata dal consumismo e terrorizzata dall’atomica sovietica, attraverso alcune vicende private che non faranno mai parte dei libri di storia, ma talvolta la spiegano molto meglio rispetto a questi ultimi.
Al centro dei suoi racconti emerge spesso il concetto di rifiuto, che è oggetto in tutto e per tutto, soltanto in un momento diverso del ciclo di produzione. DeLillo parla di rifiuti in un periodo storico in cui tutti fingevano di non vederli, come se non esistessero. Tuttavia essi sono la parte più rappresentativa del nostro sistema economico e oggi tutti dobbiamo farci i conti, provando a produrne meno e a riciclarne il più possibile. Oggi il problema dei rifiuti è venuto a galla, tanto che persino Papa Francesco nell’enciclica Laudato Sì parla di una vera e propria cultura dello scarto.
Ma veniamo a noi: in Italia, nel quinquennio 2015-2019, sono state prodotte mediamente 29,9 milioni di tonnellate di rifiuti urbani. Il grosso della differenziazione, secondo i dati del 2019 raccolti nel report sulle performance ambientali cittadine “Ecosistema Urbano“, è da attribuirsi alle regioni del Nord: 10 milioni di tonnellate, ovvero il 54% del totale differenziato.
Seguono il Sud con 4,6 milioni di tonnellate (25% del totale) e il Centro (21% del totale).
Non basta, tuttavia, gettare i propri rifiuti nel contenitore giusto per gestire in maniera sostenibile i rifiuti.
Il problema dei rifiuti, in quanto sistemico, va affrontato agendo sul sistema stesso e contribuendo a costruire una economia circolare.
Tra le priorità di Legambiente sul tema dei rifiuti c’è l’idea che ogni provincia italiana dovrebbe essere il più possibile autosufficiente, ad esempio con l’innovazione della rete impiantistica di gestione dei rifiuti.
Ma non ci sono soltanto i rifiuti urbani, nel 2019 sono state prodotte 154 tonnellate di rifiuti speciali (RS). Fortunatamente, negli ultimi anni, è cresciuto il riciclo di questi ultimi, anche se rappresentano ancora la maggior parte dei rifiuti prodotti e di cui la gestione è più complicata.
Se pensiamo alle cronache negli ultimi anni, ci rendiamo conto che non sempre il nostro Paese è stato un campione nella gestione dei rifiuti. Due città importanti come Roma e Napoli, ad esempio, sono arrivate più di una volta ad una situazione di vera e propria emergenza.
Il problema dei rifiuti è inoltre strettamente legato a quello delle ecomafie. Il fenomeno della cosiddetta “Terra dei Fuochi” non è presente soltanto nella ormai tristemente celebre area compresa tra Napoli e Caserta, ma viene riprodotto sempre di più anche nelle regioni del Nord.
3) Consumo di suolo
Per parlare di consumo di suolo non possiamo non tornare a Pentesilea, la città immaginata da Calvino con la quale abbiamo introdotto questo articolo.
Dal report Ispra più recente emerge che l’avanzata del cemento ai danni di terreni “vergine” aumenta inesorabile: in Italia, il consumo di suolo ha segnato il record di oltre 2 m2 rispetto agli ultimi 10 anni.
Come siamo arrivati a questo punto?
Ciò che rende così pericoloso il fenomeno della “città espansa”, o meglio del cosiddetto urban sprawl, è che i suoi effetti negativi vengono difficilmente percepiti nel breve periodo.
L’avanzata di una periferia, a differenza di altri tipi di danni ambientali, può sembrare a lungo innocua.
È soltanto a partire dal 2006, grazie ad un report dell’European Environment Agency (AEA), che il fenomeno dello sprawl è entrato a pieno titolo nella lista delle maggiori problematiche legate all’ambiente.
Consumare il suolo naturale in maniera irresponsabile provoca gravi danni all’ecosistema: tra le altre cose, la terra permette di produrre il cibo, conserva la biodiversità ed è l’habitat di flora e fauna.
È importante ricordare che il suolo è una risorsa finita. Una volta impermeabilizzato – e quindi coperto ad esempio da materiali quali asfalto o cemento – è molto difficile (a volte impossibile) rigenerarlo. Per questo sono importanti iniziative come il progetto SOS4Life, di cui Legambiente Emilia-Romagna è stato partner, che si è tenuto in alcuni comuni dell’Emilia-Romagna dal 2016 a fine 2019.
Alla base di questo fenomeno, ci sono anche cause di natura culturale. Il modello di consumismo scaturito dal boom economico a seguito della Seconda Guerra Mondiale, ha spinto molte persone a vedere nelle case unifamiliari con giardino il sinonimo della realizzazione e di uno stile di vita agiato.
Questo tipo di abitazioni venivano spesso costruite in aree a bassa densità abitativa – e meno antropizzate rispetto ai centri delle città – e questo è uno dei motivi per cui si spiega, ad esempio, l’aumento dello sprawl anche in aree in cui la popolazione risulta in decrescita.
Negli ultimi anni, invece, una bella fetta delle aree sottoposte a cementificazione sono dedicate ai poli della logistica, settore sempre più in crescita dal post-pandemia.
Il caso del colosso Amazon è emblematico: i centri di distribuzione del celebre e-commerce sono 175 in tutto il mondo.
Proviamo a immaginare quanti milioni di metri quadrati di superficie terrestre, dunque, sono occupati dai magazzini del colosso dell’ e-commerce.
Il magazzino virtuale di Jeff Bezos è soltanto l’esempio più lampante di una tipologia di business alla quale, purtroppo, è strettamente legato anche il tema del consumo di suolo.
Per fortuna, da questi attacchi al territorio spesso è sorta una nuova consapevolezza ecologica che ha messo i bastoni fra le ruote a questi maxi-progetti che divorano il suolo. Pensiamo al caso delle Risaie di Altedo, dove gli ambientalisti hanno bloccato 73 ettari di terreno agricolo che era stato destinato alla logistica.
Come dice un recente slogan, “noi non difendiamo la natura, siamo la natura stessa che si difende”.
Ripensare l’habitat urbano
In effetti la città simboleggia, ancora meglio dell’industria e della tecnologia, quella dimensione artificiale, ‘denaturalizzata’ che denota l’attuale modernità. Oggi essa è divenuta anche l’emblema di uno dei maggiori e più inediti problemi dei tempi moderni: la crisi ecologica, cioè la comparsa e poi il progressivo accentuarsi di fenomeni – le varie forme d’inquinamento, l’impoverimento della biodiversità, i rischi di esaurimento delle risorse naturali – che testimoniano una sostanziale rottura, a opera dell’uomo, degli equilibri ecologici. (R. Della Seta – XXI Secolo)
Pensare a una società moderna in cui non esistano le città sarebbe, a questo punto, ai limiti della fantascienza. L’ambiente urbano, statistiche alla mano, è ad oggi l’habitat prediletto dagli esseri umani moderni, quello in si svolgono quasi la totalità delle attività economiche, sociali e culturali delle persone.
Provare a ripensare al modo in cui esse vivono all’interno delle città, cercando di renderlo il meno impattante possibile sugli equilibri che reggono la natura fin da prima della nascita dell’uomo, dovrebbe essere l’obiettivo primario di questa epoca.
Costruiamo le fondamenta per una vera e propria ri-evoluzione urbana.